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Giovani, disabilità e lavoro: tra retorica e possibilità

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NAPOLI (Di Anna Calì) – In Italia esistono pizzerie dove il lavoro non è concesso per bontà, ma riconosciuto per merito. Locali in cui giovani con disabilità non sono mascotte da copertina, ma professionisti a pieno titolo. Dove la parola inclusione non è un’etichetta da bilancio sociale, ma un impegno quotidiano fatto di turni, formazione e diritti.

A Monza, nel cuore dell’operosa Brianza, il ristorante PizzAut impiega con contratto regolare ragazzi nello spettro autistico: sono pizzaioli, camerieri, addetti alla sala. Non sono ragazzi speciali, sono lavoratori. In Emilia-Romagna, nel comune di Castel Bolognese, ha aperto Civico 25, pizzeria che assume giovani con disabilità cognitive. In Campania, tra le strade spesso dimenticate di Melito di Napoli, è nato il progetto La Matta, che punta a formare e occupare bambini e adolescenti con fragilità psichiche e relazionali.

E poi c’è Napoli città, dove pizzaioli noti come Errico Porzio hanno scelto di abbattere i pregiudizi non con le parole, ma assumendo. E lo hanno fatto senza riflettori: “È arrivato con entusiasmo, ora è parte del team”, dice di Emanuele, 21 anni, sindrome di Down e contratto da cameriere.

Ma la rivoluzione dell’inclusione non si ferma alla ristorazione. Anche il mondo dell’editoria comincia a farsi carico della necessità di creare spazi accessibili, veri e simbolici.
Sempre a Napoli, nel quartiere Scampia, tra le stesse strade in cui un tempo si consumava la narrazione del degrado, la casa editrice Marotta & Cafiero ha lanciato un progetto ambizioso: una libreria per bambini con disabilità cognitive e relazionali.
Non una vetrina per buoni propositi, ma uno spazio reale, progettato per accogliere, stimolare, far crescere.

L’iniziativa si finanzia attraverso l’acquisto simbolico di “mattoncini” in legno; piccole tessere di partecipazione popolare, ognuna delle quali rappresenta un contributo concreto alla costruzione della libreria. I libri, qui, non sono semplici pagine da sfogliare: sono un balsamo per l’anima, la mente e il corpo. Sono strumenti di esplorazione, libertà, cura.

In un’Italia che fatica ancora a progettare spazi culturali realmente inclusivi, questa libreria rappresenta un gesto semplice ma potente: restituire ai bambini speciali il diritto alla bellezza, alla narrazione, al sogno.

Il minimo comune denominatore è chiaro: non si tratta di gesti caritatevoli, ma di un cambio di paradigma. Un modello replicabile in cui la disabilità viene letta come risorsa, e il lavoro come strumento primario di inclusione sociale.

Parlare di disabilità senza cadere nella retorica è ancora una sfida. Le storie che riguardano questi ragazzi vengono spesso impacchettate in un registro emotivo, pietistico o, al contrario, spettacolarizzante. Ma ciò che accade nei contesti lavorativi non ha nulla a che fare con l’eroismo. È lavoro. È formazione. È fatica. È orario di apertura e chiusura, pausa pranzo, retribuzione, prove da superare e persino ruoli da rispettare.

In un Paese in cui il tasso di occupazione delle persone con disabilità è tra i più bassi in Europa, queste realtà dimostrano che un altro modello è possibile. Non alternativo, ma necessario. Un modello dove l’inclusione non è una concessione, ma una responsabilità condivisa.

Assumere ragazzi con disabilità non è da considerarsi una bella azione, ma un atto che riconosce loro lo stesso diritto al futuro che spetta a ogni cittadino.

Ed è qui che si ribalta la narrazione: non sono loro a dover ringraziare per un’occasione concessa. Semmai è la società che deve interrogarsi su quante occasioni ha negato, e continua a negare. Il lavoro non solo garantisce indipendenza economica, ma diventa lo spazio in cui si affermano l’identità, l’autonomia, la socialità. Ecco perché queste esperienze hanno un valore che va oltre il locale o il quartiere: sono semi di un cambiamento culturale che può attecchire ovunque.

Eppure, non tutto fila liscio. Accanto all’entusiasmo, spesso si rilevano sguardi carichi di sorpresa, condiscendenza o fastidio. Clienti che chiedono se il ragazzo autistico riuscirà davvero a prendere l’ordinazione, altri che fanno battute fuori luogo, altri ancora che evitano di tornare.
È in queste reazioni che si legge quanta strada resti da fare nella percezione collettiva della disabilità. Il cambiamento non riguarda solo chi lavora, ma chi osserva. È nella normalità di un servizio svolto bene, nella spontaneità di un rapporto tra colleghi, nella capacità di non stupirsi, che si misura il livello culturale di una comunità.

Troppo spesso la disabilità viene considerata un onere per lo Stato, una difficoltà per il datore di lavoro, una deviazione dalla norma. Ma esperienze come quelle sopra citate mostrano che l’inserimento lavorativo è un investimento sociale: riduce l’isolamento, migliora la qualità della vita, favorisce la coesione.
E, fatto non secondario, funziona anche dal punto di vista economico. I locali assumono, formano e creano occupazione vera. I ragazzi portano entusiasmo, precisione, senso del dovere. E i clienti tornano, spesso proprio per la bellezza di un’esperienza umana autentica.

Non basta parlare di inclusione, bisogna praticarla. Con coerenza, con visione, con rispetto.
La vera modernità non sta nella tecnologia dei forni o nelle farine gourmet, ma nella capacità di vedere nel lavoro uno strumento di cittadinanza per tutti, nessuno escluso.

Ci piace raccontare questi ragazzi come esempi virtuosi, finché restano nelle nostre narrazioni commoventi. Ma quando li incontriamo davvero, fuori da un video emozionale, spesso distogliamo lo sguardo, abbassiamo la voce o cambiamo marciapiede.

La verità è che l’inclusione vera ci mette a disagio, perché ci costringe a fare i conti con i nostri pregiudizi, le nostre omissioni, la nostra ipocrisia. E allora celebriamo il diverso solo quando è eccezionale, quando è utile alla narrazione del buonismo, ma non lo riconosciamo come normale.

Ma non c’è nulla da celebrare. Non c’è nulla da tollerare. C’è solo da riconoscere. Questi giovani lavorano, imparano, sbagliano, crescono, costruiscono il proprio futuro. Esattamente come chiunque altro.

E finché continueremo a guardare tutto questo con stupore, e non con rispetto, la vera disabilità continuerà a non essere la loro, ma la nostra: quella che ancora ci impedisce di vedere in loro cittadini a pieno titolo.

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