NAPOLI (Di Anna Calì) – Via Toledo, domenica pomeriggio. Tra i turisti e i tanti napoletani che hanno deciso di raggiungere il centro storico per passare una domenica all’insegna dello shopping o semplicemente per godere un po’ del sole caldo napoletano. All’improvviso, il rumore secco di un crollo: un pezzo di cornicione si stacca da un palazzo e colpisce un passante di 40 anni. È ferito, trasportato d’urgenza in ospedale. Poteva andare peggio. Poteva morire. Ma Napoli si accontenta, ancora una volta, di dire: È andata bene.
Non è una fatalità. È l’ennesimo episodio di una lista che si allunga da anni, con la stessa dinamica e lo stesso copione: calcinacci che cadono, strutture che cedono, cittadini che rischiano la vita semplicemente camminando per strada. Il problema è noto, diffuso, sistemico. Ma gli interventi sono sporadici, le responsabilità si perdono nei meandri burocratici e la manutenzione rimane nei fatti; un’assenza cronica.
Solo negli ultimi mesi, Napoli ha visto crolli in via Poerio, nella Galleria Principe, in via Doria d’Angri. In passato, tragedie sfiorate in via Aniello Falcone, corso Umberto, piazza Garibaldi e Galleria Umberto dove perse la vita un giovane ragazzo, Salvatore. Le segnalazioni si accumulano, i sopralluoghi si annunciano, ma poi tutto tace. Fino al prossimo schianto.
Scene che non dovrebbero appartenere a una città europea del XXI secolo, ma che invece sono diventate parte del paesaggio urbano partenopeo. L’amministrazione registra, promette verifiche, annuncia interventi. Ma sul campo, si continua a camminare col naso all’insù, sperando di non essere il prossimo bersaglio della gravità.
Il vero male, però, è l’assenza di una politica strutturale e continuativa sulla manutenzione. Si interviene solo a disastro avvenuto, con i nastri rossi della municipale, le passerelle istituzionali, le frasi fatte: “Verificheremo”, “Faremo luce”, “Interverremo”. Ma la luce non arriva mai, e gli interventi veri si fanno attendere. Gli edifici, molti dei quali antichi, vincolati, fragili, restano in balìa del tempo, delle infiltrazioni, delle vibrazioni e dell’abbandono.
Eppure, da anni si parla di un “piano casa” per Napoli, di fondi europei da investire in riqualificazione, di incentivi per i condomìni che non riescono a sostenere autonomamente i costi della manutenzione straordinaria. Tutto resta sulla carta, mentre la città si consuma. La verità è che manca una regia, una cabina di comando, una visione d’insieme che metta la sicurezza al primo posto. E così si convive con il rischio, ogni giorno.
La responsabilità, in casi come questi, è spesso difficile da individuare. I palazzi sono di proprietà privata, ma i controlli spettano al pubblico. Le competenze si dividono tra Comune, Sovrintendenza, Ufficio tecnico, Protezione civile, Regione. Il risultato è un cortocircuito istituzionale in cui ognuno attende l’altro, e nessuno agisce con decisione. E mentre si discute, la città si sgretola.
Non esistono al momento se non in forma occasionale piani di monitoraggio sistematico e trasparente dello stato degli edifici a rischio. Nessuna mappatura aggiornata, nessuna piattaforma pubblica per segnalare e seguire le criticità. I cittadini continuano a fare segnalazioni informali, spesso inascoltate. E le conseguenze sono ormai sotto gli occhi di tutti.
C’è un’urgenza, che va detta con chiarezza: Napoli non può più permettersi il lusso del silenzio. Non si tratta solo di decoro urbano o conservazione storica. Si tratta di incolumità pubblica, di sicurezza quotidiana. Di diritto a camminare per strada senza temere che ti cada qualcosa in testa. È questo il livello a cui siamo arrivati: la paura di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, sotto un balcone sbagliato.
Serve un piano straordinario di manutenzione urbana, con fondi certi, tempi chiari e responsabilità definite. Serve una mappatura degli edifici pericolanti, accessibile e aggiornata. Serve una campagna seria di controllo e prevenzione, non interventi spot sotto elezioni o dopo la tragedia.
Una città fragile, sì, ma non può più essere trattata come una città sacrificabile. Ha un patrimonio edilizio che non è solo estetica: è storia viva, è identità, è tessuto sociale. Lasciare che tutto questo crolli sotto il peso dell’indifferenza è un crimine lento e quotidiano, che nessuno ha il coraggio di chiamare con il suo nome.
I calcinacci non sono solo macerie: sono un grido d’allarme, il segno evidente di uno Stato e di una classe dirigente che ha scelto di abbandonare. Ma ogni pezzo che cade è un pezzo di città che perdiamo. E non possiamo più permettercelo.



















