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“Profumo di viole sfiorite”: intervista ad Antonio Borsa

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NAPOLI (Di Anna Calì) – C’è chi nella vita cura con le parole della scienza, e chi sceglie quelle della letteratura per lenire ferite più invisibili. Antonio Borsa appartiene a entrambe le categorie. Dopo il successo del suo romanzo d’esordio I tre appuntamenti, l’autore napoletano torna con Profumo di viole sfiorite, un’opera intensa che attraversa i territori del dolore, della speranza e della rinascita.

Tra le pagine del libro si respira l’eco delle canzoni di Max Pezzali, che diventano bussola emotiva per un viaggio sospeso tra vita e aldilà, dove il protagonista, impara che anche dopo la resa può esistere un ritorno alla luce. Con una scrittura sincera e senza orpelli, Borsa affronta il tema del suicidio e della salute mentale con delicatezza e coraggio, trasformando la disperazione in un dialogo universale sulla resilienza.

Lo abbiamo incontrato per parlare di musica, dolore e rinascita, ma soprattutto di quella voce interiore che, come scrive nel romanzo, “ci sussurra di restare sul ring, anche quando tutto sembra perduto”.

In un’epoca in cui il tema del suicidio è ancora un tabù, come ha affrontato la sfida di scriverne senza cadere nella retorica o nella banalizzazione del dolore?

“Scrivere del suicidio senza cadere nella retorica significa prima di tutto non avere paura del silenzio. Non cercare di spiegare, ma di ascoltare ciò che spesso la società non vuole sentire. Ho scelto di non raccontare la morte, ma ciò che resta attorno ad essa: il vuoto, la domanda sospesa, l’eco che continua nelle vite di chi rimane. Non volevo un romanzo che commuovesse — volevo un romanzo che disturbasse nel senso più umano del termine: che costringesse chi legge a guardarsi dentro, a riconoscere quel frammento di dolore che tutti, almeno una volta, abbiamo sfiorato. Per me la sfida non era “parlare del suicidio”, ma restituire dignità al dolore, mostrare che dietro ogni gesto estremo non c’è follia, ma un urlo non ascoltato. E allora ho scritto con rispetto, con pudore, ma anche con rabbia. Perché il dolore non è una poesia triste: è un fatto. E se lo racconti con verità, non c’è mai il rischio di banalizzarlo”.

Nel romanzo la “Valle” è un luogo sospeso tra espiazione e rinascita. Quanto di questa metafora è legato a un’esperienza personale, e quanto invece rappresenta una riflessione più universale sul dolore e sulla possibilità di rinascita?

“La Valle nasce da un luogo che conosco molto bene: quello in cui non sei più chi eri, ma non sai ancora chi diventerai. È uno spazio mentale prima che fisico, il punto più basso del dolore, ma anche quello in cui, se resti abbastanza a lungo, inizi a vedere una luce che non viene dall’esterno — viene da te.
In parte è esperienza personale, perché tutti abbiamo attraversato momenti in cui ci siamo sentiti sospesi, svuotati, senza direzione. Ma in Profumo di viole sfiorite ho voluto che quella Valle diventasse qualcosa di più grande: una metafora universale della sopravvivenza. Non è solo il purgatorio del protagonista, è il luogo dove ognuno di noi può rinascere, se accetta di guardare il proprio dolore senza scappare.
Credo che la rinascita non sia un premio: è una conquista. E la Valle rappresenta proprio questo — l’attimo in cui capisci che non puoi più tornare indietro, ma puoi scegliere di tornare a vivere”.

C’è un momento della vita dell’autore in cui anche lui ha “rischiato di mollare”?

“Sì, ho rischiato di mollare. È successo quando ho perso il mio angelo dagli occhi azzurri — una presenza che aveva illuminato la mia vita in un modo che non si dimentica. Da quel momento tutto si è spento: vivere, respirare, perfino alzarsi la mattina sembrava inutile.
Ma proprio lì ho capito una cosa che oggi è il cuore del romanzo: non esiste dolore che non possa trasformarsi. La disperazione non è un fallimento, è una lingua che devi imparare a leggere.
Quando ho iniziato a raccontare quella perdita, non lo facevo per guarire: lo facevo per non morire. Poi ho capito che stavo costruendo un ponte.
Profumo di viole sfiorite nasce da quel punto esatto: da una sconfitta che non voleva finire e da un amore che, anche se spezzato, continua a profumare.
Non ho più ritrovato il mio angelo, ma da quel dolore ho imparato che la scrittura può essere una resurrezione. E forse, in fondo, ogni libro è una preghiera a chi abbiamo perduto”.

Cosa rappresentano per Borsa le canzoni degli 883 e di Pezzali: semplici colonne sonore di un’epoca, o vere e proprie “mappe emotive” per orientarsi nella vita?

“Per me le canzoni di Max Pezzali non sono mai state solo colonne sonore: sono mappe emotive.
Max è uno di quei pochi artisti capaci di raccontare la vita vera — senza filtri, senza eroi, senza la retorica del “tutto andrà bene”. Nei suoi testi ci sono le nostre paure, le scelte sbagliate, le persone che abbiamo perso e quelle che non abbiamo avuto il coraggio di tenere.
Quando ero ragazzo, ascoltare gli 883 significava sentirsi meno solo; da adulto, significa riconoscersi.
Ogni canzone è un promemoria di umanità: Come deve andare insegna ad accettare ciò che non possiamo cambiare, Nessun rimpianto invita a camminare anche dopo un addio, La dura legge del gol ricorda che non sempre vince chi merita.
Pezzali è un maestro di vita proprio perché non predica — ascolta e restituisce.
E in Profumo di viole sfiorite la sua musica non è un sottofondo: è la bussola che orienta Ryan, e forse anche me, verso la consapevolezza che non si guarisce dimenticando, ma ricordando con dolcezza”.

Quanto conta la nostalgia come strumento narrativo per parlare di speranza e crescita personale?

“La nostalgia, per me, non è un sentimento triste: è la forma più pura della gratitudine.
In Profumo di viole sfiorite la nostalgia è la sostanza stessa della speranza — perché nasce da ciò che è stato vero, da ciò che ha lasciato un segno che non si può né cancellare né sostituire.
Quando ho perso il mio angelo dagli occhi azzurri, ho scoperto che la nostalgia non è il dolore di non avere più, ma la fortuna di aver avuto. È il filo che continua a legarti a ciò che ti ha reso vivo, anche se oggi non c’è più.
Come narratore, la uso per parlare di crescita, perché è lì che la vita si rigenera: nel punto in cui accetti che il passato non tornerà, ma continua a insegnarti.
La nostalgia è la memoria che profuma. Ed è proprio quel profumo — dolce, ma segnato dal tempo — che ti guida fuori dal buio e ti ricorda chi sei stato, per aiutarti a diventare chi puoi essere”.

In che modo la sua formazione da biologo e informatore farmaceutico ha influenzato il modo in cui osserva e racconta l’animo umano?

“La biologia mi ha insegnato una cosa che la letteratura poi ha solo confermato: tutto ciò che vive, lotta per restare vivo.
Studiare la vita a livello cellulare ti mostra quanto l’esistenza sia fragile e tenace allo stesso tempo. Ogni organismo, anche il più piccolo, trova sempre un modo per resistere, per adattarsi, per rinascere.
Come informatore farmaceutico ho imparato a guardare il dolore non come un concetto astratto, ma come qualcosa di concreto, misurabile, che attraversa i corpi e le vite reali.
Ecco perché nei miei romanzi l’animo umano non è mai idealizzato: lo osservo come osserverei un fenomeno naturale — con rispetto, curiosità, e senza giudizio.
Penso che la scienza mi abbia insegnato a non avere paura della complessità, e la scrittura a darle voce.
In fondo, scrivere e curare non sono così diversi: in entrambi i casi cerchi un modo per riconnettere ciò che si è spezzato”.

La prosa di “Profumo di viole sfiorite” alterna toni intimi e quasi poetici a momenti molto diretti. È una scelta spontanea o frutto di un preciso intento comunicativo, magari per avvicinare chi si sente solo o inascoltato?

“È una scelta che nasce dal cuore, ma ha un intento preciso: accorciare la distanza.
La mia prosa oscilla tra l’intimo e il diretto perché così si muove anche il dolore umano: a volte sussurra, altre urla.
Quando parlo in modo poetico, non lo faccio per abbellire — lo faccio per restituire dignità alla fragilità. Quando invece divento diretto, è perché certe verità non si possono addolcire: vanno dette, crude, vive, così come sono.
Scrivendo Profumo di viole sfiorite volevo creare un linguaggio che abbracciasse anche chi si sente escluso dalle parole.
Chi è solo, chi non ha voce, chi pensa che nessuno possa capirlo: volevo parlargli senza filtri, ma anche con rispetto.
In fondo, alternare poesia e realtà è il modo più sincero che conosco per dire: “Ti vedo. Ti capisco. Non sei solo.”

Se potesse parlare oggi a chi si sente sconfitto, quale sarebbe la frase che non ha scritto nel libro ma che vorrebbe aggiungere come ultimo messaggio di speranza?

“Non devi per forza essere forte. Devi solo restare.”
Perché la vita non chiede eroismo, chiede presenza. Anche quando tremi, anche quando non hai più risposte.
Ho imparato che la vera forza non è reagire, ma resistere anche senza un perché, fidandoti che, da qualche parte, qualcosa dentro di te continuerà a battere.
E se oggi ti senti sconfitto, ricordati che non sei la tua caduta: sei il respiro che viene dopo.
È in quel respiro che comincia la rinascita”.

Ha in mente altri lavori editoriali? Se sì, può darci già un’anticipazione?

“Prima di pensare a un terzo libro, voglio che Profumo di viole sfiorite faccia il suo cammino, fino in fondo. Non per una questione di numeri, ma perché credo profondamente nei temi che contiene — la solitudine, la rinascita, la fragilità, la speranza — e vorrei che arrivassero a quanta più gente possibile.
Questo romanzo per me non è solo una storia: è una voce che parla a chi non ne ha più una, e finché non avrà raggiunto quelle persone, io non mi sentirò pronto a voltare pagina.
Detto questo, sì, sto già lavorando a un terzo romanzo. Sarà un’opera più intima, più raccolta, ma sempre legata al sociale.
Mai come questa volta sento il bisogno di raccontare non tanto cosa accade fuori, ma cosa accade dentro, quando la vita ti costringe a ricominciare da zero.
Però non uscirà prima di due o tre anni. Alcune storie hanno bisogno di maturare in silenzio, proprio come fanno le ferite prima di diventare cicatrici”.

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