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Vivere (bene) il lavoro: intervista all’autore Gabriele Pensieri

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NAPOLI (Di Anna Calì) – L’esperto di formazione e consulenza racconta il suo “Manuale di sopravvivenza” per imprenditori, manager e professionisti. In un tempo in cui il lavoro sembra spesso un fardello da sopportare più che uno spazio di crescita, Gabriele Pensieri consulente e autore propone un cambio di prospettiva radicale ma concreto.

Il suo libro nasce proprio da un’esperienza sul campo, condivisa con chi ogni giorno affronta le sfide del lavoro.

In questa intervista, è lo stesso autore a raccontarci i concetti chiave della sua visione: dall’espansione della comfort zone alla visualizzazione mentale, fino all’equilibrio possibile tra vita e carriera.

Un dialogo che invita a riflettere, e soprattutto ad agire.

Come nasce l’idea di scrivere un manuale di sopravvivenza rivolto a imprenditori, manager e professionisti? C’è un’esperienza personale che ha fatto da scintilla?

“In effetti il libro è frutto sia di esperienze personali che ogni imprenditore o professionista si ritrova, prima o poi, a vivere, sia di tutte le esperienze in azienda al fianco di manager, ceo e direttori come formatore e consulente.

Spesso ci viene insegnato che il lavoro è una fatica inevitabile, un dovere da sopportare più che uno spazio di crescita o di felicità. E così, giorno dopo giorno, entriamo in modalità “sopravvivenza”: facciamo quello che dobbiamo, contiamo le ore, aspettiamo il weekend.

Il problema è che in questo modo sacrifichiamo una fetta enorme della nostra vita, perché il lavoro occupa tantissimo tempo ed energia. Quello che cerco di trasmettere è che non serve stravolgere tutto per stare meglio. Con gli strumenti giusti, dalla comunicazione efficace alla gestione del tempo, dalla consapevolezza emotiva alla capacità di dare senso a ciò che facciamo, è possibile trasformare il lavoro in un momento più felice, o almeno migliore. Non si tratta di favole motivazionali, ma di scelte quotidiane, di allenamento mentale, di cambi di prospettiva.

E quando inizi a vedere il lavoro come un luogo dove puoi esprimerti, imparare, relazionarti bene, magari anche divertirti, tutto cambia. E spesso, anche i risultati migliorano”.

Uno dei concetti chiave è l’espansione della comfort zone. In un mondo che chiede costante adattamento, come si può allenare questa capacità senza cadere nel burnout?

“Si chiama comfort zone perché è comoda: è uno spazio in cui ci sentiamo al sicuro e la ricerca e la protezione della sicurezza è per noi esseri umani una funzione automatica programmata per garantire la sopravvivenza, non la felicità o la realizzazione. Per questo non amiamo il cambiamento: lo percepiamo come un potenziale pericolo e tendiamo a restare in territori conosciuti, anche se insoddisfacenti, perché sappiamo come gestire le cose. Uscire dalla comfort zone, neuroscientificamente parlando, significa allenare il cervello al nuovo.

Grazie alla neuroplasticità, ogni piccola sfida crea nuove connessioni neurali. Più ci esponiamo gradualmente a qualcosa di diverso, più il nostro cervello si adatta. In più, la dopamina – il neurotrasmettitore della motivazione – si attiva già solo immaginando una ricompensa futura.

Quindi visualizzare i benefici del cambiamento e celebrarne ogni passo, anche piccolo, aiuta il cervello a spingerci avanti. Il concetto giapponese di Kaizen, letteralmente “Cambiamento buono” o “Miglioramento continuo”, sintetizza bene questo processo, fatto da piccoli passi”.

Il volume integra pratiche come l’imagery e la visualizzazione mentale, tecniche spesso associate al mondo dello sport o della psicologia. In che modo possono diventare strumenti pratici nel mondo del lavoro?

“L’imagery è la tecnica fondamentale usata dai mental coach specializzati nel seguire atleti e sportivi per prepararli alla performance prima di tutto sotto l’aspetto mentale. Il cervello non distingue tra ciò che immaginiamo intensamente e ciò che viviamo davvero: attiviamo le stesse aree cerebrali, come se stessimo già affrontando la sfida.

È più o meno quello che tutti noi proviamo al cinema, quando piangiamo, ridiamo, sobbalziamo terrorizzati davanti alla scena di un film.

Sappiamo che non è reale ma il nostro cervello si attiva in termini chimici esattamente come se lo fosse. Visualizzare in modo dettagliato una nuova situazione, immaginare di affrontarla con successo, sentire le emozioni positive legate, prepararsi anche alle difficoltà che ci saranno lungo il cammino prepara il cervello all’azione, abbassa l’ansia e aumenta la probabilità di successo.

Funziona per atleti e sportivi e funziona altrettanto bene per chiunque, come strumento utile per gestire le nostre emozioni o per prepararci a momenti importanti della nostra vita lavorativa. Basta solo decidere di farlo”.

Nel libro si parla anche dell’equilibrio tra lavoro, affetti e svago: quanto è davvero raggiungibile per chi vive una carriera ad alto ritmo, e quali compromessi bisogna accettare?

“Parlare di equilibrio spesso ci porta a immaginare una bilancia perfetta tra lavoro, affetti e tempo libero. Nella vita reale, questo equilibrio statico è impossibile da raggiungere, soprattutto per chi vive una carriera ad alto ritmo.

Si può invece pensare non tanto di bilanciare, quanto compenetrare. Lavorare per far dialogare questi tre ambiti, integrarli, far sì che si nutrano a vicenda invece di competere per il nostro tempo. Ad esempio portando nel lavoro la creatività che nasce dalle nostre passioni personali o trovando nel lavoro un senso più profondo che generi valore anche per chi ci è vicino.

Non si tratta di incasellare la giornata in tre blocchi uguali, ma di vivere ogni parte della vita con presenza, sapendo che ci saranno compromessi, certo – ma che possono diventare scelte consapevoli, non rinunce obbligate”.

C’è un lettore tipo a cui ha pensato mentre scriveva questo libro, oppure è stato concepito come uno strumento trasversale, utile a più livelli?

“In effetti si, c’è. L’ho pensato per quelle lettrici e quei lettori che provano la sensazione di dover agire, che hanno il sentore che sia arrivato il momento. La spinta può nascere dal non poterne veramente più, oppure dall’immagine di una realtà diversa e possibile che senti di desiderare veramente. Sono queste le persone cui pensavo mentre scrivevo il Manuale, con l’obiettivo di raccontargli come funzioniamo e di fornire azioni e metodologie uniche che possano favorire questo percorso. Certo, non è un cammino semplice, ma è sempre un cammino meraviglioso e penso davvero che in fondo, quello conta, è il viaggio prima ancora della meta”.

A chi ha già letto il libro e vuole passare dalla teoria alla pratica: qual è il primo passo concreto che consiglia di fare, già domani mattina?

“Sfogliare nuovamente il libro e fermarsi nei passaggi che ad una prima lettura la lettrice o il lettore hanno sentito più vicini, fidandosi anche del proprio istinto o se vogliamo, del cuore. Sfogliarlo lentamente, come si fa con un vecchio album di ricordi, lasciando che una pagina ci scelga. Non cerchiamo il capitolo giusto, ma quello che ci tocca di più in quel momento. Quello che ci fa dire: “Ecco, questo parla a me”. Quella pagina, quel capitolo, possiamo portalo nella vita vera con un gesto, una frase o una decisione. Anche piccola, ma concreta. In fondo, tutto comincia così: dal molto piccolo”.

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