Il cibo, oggigiorno, pare essere dappertutto: se ne produce in quantità sufficiente a sfamare 12 miliardi di persone. Ma c’è un dato tutt’altro che rassicurante, quello sulle persone che soffrono la fame: secondo la Fao, nel 2021, chi ne ha patito sono stati tra 702 e 828 milioni di individui. In mezzo a questi due opposti, c’è il dato sullo spreco alimentare: quasi un terzo del cibo viene gettato via senza essere consumato.
In occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione, che si celebra il 16 ottobre, Slow Food – forte anche dell’entusiasmo e del coraggio infuso dai 3 mila delegati da 130 Paesi che a fine settembre si sono dati appuntamento a Torino in occasione di Terra Madre – denuncia le assurdità che caratterizzano il modo di produrre e consumare cibo.
«La giornata mondiale dell’alimentazione non può che fare perno sul tema dell’equità: viviamo in un’epoca in cui ancora si muore di fame. E una constatazione tanto insopportabile diventa ancora più odiosa quando si chiarisce che non si muore di fame per scarsità alimentare ma per povertà. È la povertà a determinare la negazione del diritto alla sopravvivenza – sottolinea Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia –. Il sistema alimentare dominante, oggi, è lo specchio di un mondo che ragiona all’incontrario, che agisce sulla base dei profitti invece che dei diritti, che promuove lo sfruttamento invece che il benessere. Quello che ha a che fare con la produzione di cibo è un settore che raccoglie ingenti investimenti, ma che non produce ricadute economiche sugli anelli più deboli della catena, su coltivatori e allevatori di piccola scala, e che lascia morire di fame decine di milioni di persone».
I metodi di produzione di cibo oggi maggiormente diffusi impoveriscono le risorse invece di tutelarle: agire in questo modo significa correre a velocità folle verso l’autodistruzione, perché, di questo passo, non sarà più possibile coltivare in suoli sempre più poveri, pescare in acque sempre più calde e inquinate, portare al pascolo gli animali in aree montane abbandonate e aride.
L’industria del cibo non ha più legami con i luoghi né con le stagioni. Da dove arriva ciò che portiamo in tavola? Da luoghi invisibili, o da non luoghi come gli allevamenti intensivi nascosti dentro a capannoni lontani dagli occhi dei consumatori. L’agroindustria sforna frutta e verdura in enormi campi monocolturali, ottenuta da semi che sono gestiti e venduti da una manciata di multinazionali che, per inciso, sono le stesse che mettono in commercio i fertilizzanti e i pesticidi. Oppure da qualche altro angolo del mondo, come la guerra in Ucraina ha reso evidente anche ai più distratti.
E proprio le conseguenze delle tensioni internazionali hanno innescato una spirale di inflazione che sta avendo – e avrà sempre di più – gravi conseguenze sulla sicurezza alimentare dei meno abbienti: la ridotta disponibilità economica delle famiglie le spingerà a privilegiare alimenti a basso costo, che spesso sono quelli meno salubri e meno nutrienti ma che nascondono le ingiustizie più gravi, come lo sfruttamento della manodopera o il ricorso alla chimica.
La sovranità alimentare è un’utopia? No, non lo è. E Slow Food lo dimostra: ci sono milioni di attivisti e simpatizzanti in tutto il mondo che lottano per mantenere i semi nelle mani di chi produce il cibo, che combattono il land e il water grabbing, che allevano in maniera consapevole e rispettosa degli animali. Non è un’utopia, ma i giganti che spingono per cancellare tutto questo sono sempre più grandi.
«Promuovere un sistema alimentare sano richiede un investimento: più che quello economico – una vera transizione ecologica, in questo senso, sarebbe in grado di assicurare velocemente un ritorno in termini di lavoro, salute e sicurezza –, occorre un investimento in volontà. Volontà di chi ha il compito di governare l’Italia o di rappresentarla in Europa: senza lasciarsi tentare dai luccichii dell’agroindustria, dell’editing genetico e degli Ogm, dalla chimica di sintesi o dall’illusione che la crisi ambientale si risolva solo attraverso la tecnologia. Servono volontà e competenza, capacità di ascoltare e farsi ispirare da chi il cibo lo produce per nutrire, non per arricchirsi a discapito di qualcun altro» conclude Barbara Nappini.