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La “scarpetta”: il gesto che sa di casa, amore e rivoluzione

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NAPOLI (Di Anna Calì) – C’è un gesto, tra i più semplici e potenti della nostra tradizione, che racchiude tutto il calore di una domenica in famiglia, l’ardore del Sud e il sacro legame tra il cibo e l’anima: è la scarpetta.

Quell’atto istintivo e liberatorio con cui si afferra una fetta di pane, se del giorno prima è meglio ancora, rustico, con la crosta dura e si fa danzare nel piatto per raccogliere fino all’ultima goccia di sugo.

A Napoli, la scarpetta non è solo un’abitudine, è un rituale. È memoria che si rinnova a ogni boccone, è infanzia che torna tra le dita, è un atto d’amore verso chi ha cucinato, verso la cucina stessa. Inzuppare il pane nel ragù, nel sugo della genovese, nella salsa rimasta dopo una parmigiana, è dire “grazie” senza parlare, è baciare il piatto come si bacerebbe una persona cara: con devozione.

Non importa il contesto, che sia un pranzo festoso o una cena improvvisata con pochi ingredienti, la scarpetta arriva sempre come epilogo di un racconto appassionato, il punto esclamativo di un discorso fatto di odori, sapori e gesti antichi. Anche nei ristoranti più raffinati di Napoli, non c’è vergogna, anzi: si applaude chi, senza troppe cerimonie, fa la scarpetta. Perché ha avuto il coraggio di lasciarsi andare, di vivere il cibo fino in fondo.

Un tempo la scarpetta era vista con sospetto, quasi fosse un segno di maleducazione. Ma oggi, più che mai, in un mondo che corre e dimentica, la scarpetta è resistenza. È il piacere che si prende il suo tempo, è la poesia dell’avanzo che diventa capolavoro. È quel sapore che resta sulle dita e non va via, come certi amori o certe estati d’infanzia.

Chiedi a un napoletano cosa sia la felicità, e forse ti risponderà: “’Na bella scarpetta cu ‘o rraù”. E non ci sarà niente da aggiungere. Perché in quel pane intriso c’è la nonna che cucina dalle sei di mattina, c’è la mamma che ti serve il piatto più fondo, c’è il papà che ti ruba il pane con una risata. C’è il Sud intero, che non spreca, che custodisce, che ama fino all’ultima briciola.

La scarpetta non si insegna, si eredita. E quando la fai, in silenzio, capisci che stai continuando una storia millenaria, che parla di miseria e di opulenza, di fame e di festa. La scarpetta è un atto di fede. E chi la compie, con il pane tra le dita e gli occhi chiusi dal piacere, è un credente della cucina, un poeta senza parole, un figlio della terra che onora ogni goccia di sugo come fosse oro.

E allora facciamola, questa scarpetta. Senza pudore, con entusiasmo. Perché in quel gesto antico e sincero, c’è tutta la verità del nostro essere italiani, napoletani, umani.

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