NAPOLI – Prosegue la Stagione da Camera del Teatro di San Carlo con un nuovo appuntamento domenica 16 gennaio alle ore 18.00.
Protagonista del terzo concerto in cartellone il Quartetto d’archi del Massimo napoletano, composto da Cecilia Laca (violino), Luigi Buonomo (violino), Antonio Bossone (viola) e Luca Signorini (violoncello).
In programma il Quartetto n. 14 in re minore D 810 “Der Tod und das Mädchen” di Franz Schubert, e il Quartetto per archi in fa maggiore di Maurice Rave

GUIDA ALL’ASCOLTO
A cura di Dinko Fabris

Il quartetto d’archi è la forma più perfetta di insieme strumentale omogeneo, in cui il dialogo tra i quattro partecipanti è analogo a quello di quattro voci nella più avanzata polifonia rinascimentale. Erede appunto dei consort di strumenti del tardo cinquecento, dopo una lunga sperimentazione durante l’età barocca giunse alla sua forma definitiva nell’età di Haydn, che per questo ne fu considerato il modello ideale già da Mozart e poi da Beethoven. Nel tempo il quartetto ha affascinato tutti i compositori romantici e in maniera naturale confluì nella sensibilità sperimentale delle avanguardie storiche del Novecento, mai cessando di costituire un ideale compositivo per tutti i grandi musicisti della tradizione occidentale. In questo itinerario si inseriscono i quartetti di Schubert e di Ravel, molto diversi tra loro come lo sono le vite dei rispettivi autori, composti a quasi un secolo di distanza.
La vita di Franz Schubert fu breve e in larga misura infelice, minata negli ultimi anni dalla malattia e dalla frustrazione di essere considerato poco più che un pianista da salotto e dall’impossibilità di far ascoltare le sue composizioni più ambiziose, come le sinfonie. Il quartetto era per Schubert una dimensione ideale, con cui si confrontò prestissimo: metà dei suoi 15 quartetti completi (cui vanno aggiunti vari frammenti) furono scritti prima del 1813, quando aveva ancora sedici anni. Il quartetto in re minore D.810 (oggi numerato come n.14) fu invece composto nel 1824 ed eseguito solo un paio di volte prima di essere abbandonato nel “cassetto” delle opere non pubblicate di Schubert perché non compreso dai contemporanei (fu edito postumo nel 1832 da czerny). La stessa incomprensione aveva colpito gli ultimi quartetti di Beethoven, il mitico modello che Schubert non poté mai incontrare pur vivendo a pochi isolati dalla sua casa. Il celebre e inquietante titolo deriva dal secondo movimento, basato su un tema con variazioni tratto dal Lied “Der Tod und das Mädschen” composto dallo stesso Schubert nel 1817 su un testo di Mathias claudius. Ma è la stessa tonalità di re minore che infonde nell’intero quartetto un’atmosfera lugubre e melanconica, fin dall’Allegro dell’inizio. Nell’Andante con moto sembra di ascoltare la suadente voce della Morte che (nel Lied originale) invita la Fanciulla a non aver paura, prendere la sua mano ed affidarsi alla danza. Lo Scherzo serve a collegare le cinque variazioni precedenti direttamente al Presto finale, che riproduce una “danza macabra” molto diffusa nella pittura medievale tedes, che conduce inesorabilmente ai due accordi conclusivi. come suggerisce Sergio Sablich, in questo capolavoro Schubert ha perfettamente rappresentato l’eterno dualismo tra l’anelito disperato alla vita e l’ineluttabilità della morte, risolvendolo come un’unità a due facce.
Anche Maurice Ravel cominciò la sua carriera di compositore con un quartetto, rimasto poi un unicum nella sua produzione. composto a ventisette anni tra il 1902 e il 1903, il quartetto in Fa maggiore fu eseguito per la prima volta a Parigi nel 1904 alla Société Nationale e subito stampato, anche se una versione rivista e definitiva fu pubblicata soltanto nel 1910. L’opera fu dedicata al suo “caro maestro” Gabriel Fauré. Apparve subito chiaro ai contemporanei che il modello seguito da Ravel era un altro, ossia l’unico quartetto di Debussy, composto nel 1893 con una libertà di trattare i quattro strumenti “come se la tradizione quartettistica austro-tedesca non fosse mai esistita” (Enzo Restagno). In più bisogna considerare che nel 1902 Ravel aveva assistito con entusiasmo a tutte le recite dell’opera rivoluzionaria di Debussy, Pelléas et Mélisande, che lo aveva letteralmente soggiogato. E tuttavia nell’affrontare la complessità del quartetto d’archi Ravel si dimostra ancora più libero e personale del suo ideale maestro e ormai collega. L’uso del pizzicato, soprattutto nel secondo tempo “Assez vif, très rythmé”, sembra evocare il colore mediterraneo di un’orchestra di mandolini, e ugualmente il “Vif, et agité” del finale si basa su un ostinato ritmico assolutamente personale. Gli elementi classici che sopravvivono, come i due temi esposti in forma sonata del primo movimento, diventano in realtà mattoncini per una costruzione estrosa e imprevedibile, con l’idea ciclica del ritorno delle due idee in tutto il brano. L’apparente equilibrio formale del quartetto, pur nella sua estrema varietà soprattutto ritmica e politematica, sembra una sovrastruttura illusoria che maschera un universo in rapida trasformazione, in cui la materia compositiva non è più regolata dalle leggi del contrappunto e dell’armonia, ma da quelle della fisica naturale, con momenti di intensa condensazione alternati ad altri di nebbiosa rarefazione: un mondo nuovo che Ravel avrebbe aiutato ad interpretare insieme agli altri maestri del Novecento.

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