NAPOLI – Venerdì 9 dicembre alle 21 Galleria Toledo, in via Concezione a Montecalvario, 34 ai Quartieri Spagnoli, diretto da Laura Angiulli, “40 anni in penombra”, il quarantennale dello spazio teatrale del Vomero BarDeFe’, luogo di ricerca e avanguardia, fondato da Adolfo Ferraro, Luciano Barbarisi e Enrico de Notaris. 

Ospiti di una serata speciale Antonella Morea, Riccardo De Luca, Cristina Donadio, Luca Taiuti, Gino Curcione, Giovanni Manzo, Lino Vairetti,  Deborah M.Farina, Gino Aveta e Marco Mario de Notaris. 
Presenta Domenico Ciruzzi 
Durante la serata sarà presentato il cortometraggio “Un Due Tre Stella” di Deborah M. Farina.

La regista ha saputo con sensibilità e delicatezza accogliere e raccontare il tragitto e la ricerca di BarDeFe teatro nel film breve, finalista al Napoli Film Festival, esaltandone la poetica con raro intuito artistico. Tra le testimonianze del film quella di Enzo Moscato.


Insieme alle tragedie e ai miti degli anni Ottanta la storia ha consegnato alla nostra la deviante avventura teatrale di una compagnia particolare, specialista dell’effimero e dell’impossibile, di ridondanti sfumature come di inutili approfondimenti.

Niente fermò i tre fondatori, nè la marginalità imposta dalla contemporanea apparizione di compagnie che incontrarono subito il favore di pubblico e critica, nè l’indifferenza degli intellettuali cittadini, e neanche il distacco del contatore enel per morosità.

I tre continuarono esplorando al buio il vastissimo mondo suggerito loro dalla fantasia creativa ed elaborarono testi e snodi narrativi suggestivi, allusivi, onirici, a volte ermetici, ma sempre sostanzialmente incomprensibili, a volte anche a loro stessi.

Individuarono subito il cono d’ombra in cui acquattarsi e dal quale iniziarono ad inviare al mondo il loro messaggio artistico. 

Protetti appunto da un’invisibilità a volte sorprendente, ne sondarono i vuoti spazi cercando in quel cono una congerie di oggetti vani, prodotti invano dalle loro menti e lanciati nel vano platea senza alcun filtro.

Ricercarono dal teatro di scrittura a quello di immagine, da quello tradizionale all’avanguardia, coniugarono il loro verbo schivando con coraggio la prosaica strada della popolarità, ben nascosti dal teatrino del Vomero (Bardefe) e profittando della notoria impraticabilità del teatro sotto il livello stradale.

La gloria del Bardefe travalicò le loro intenzioni, tant’è che da quel locale, sorto dalle ceneri del “Teatro dei resti”, gloriosa culla di molti artisti napoletani, spiccarono il volo attori di riconosciuta maestria e noti anche a livello internazionale.


A costi e conti il “Bardefe teatro” non badò mai, ed infatti verbali e borderò furono considerati fastidiosissimi intralci, orpelli da seppellire nel cumulo delle carte di cui non tener conto, e pertanto in quel cumulo i conti non tornavano mai: il profondo distacco dal reale e dalle contabilità fecero sì che presto Bardefe teatro scelse una sorta di clandestinità artistica.

Scelse tale condizione senza alcuna influenza esterna (pubblico, critica e perfino alcuni amici non seppero dissimulare le proprie perplessità…) perché convinto che l’approvazione e le luci della ribalta fossero un tranello in cui non cadere: sarebbero stati i posteri, vaneggiavano Barbarisi, de Notaris e Ferraro, a restituire il dovuto e magari la gloria, mai il successo volgare quanto piuttosto l’eccesso, l’eccentrico, al limite il disfasico.

Pertanto bisognava mettersi in cammino, sì viaggiare.

Il viaggio era percorso preferibilmente in mare, su navi deserte, come la Carousel natante in disarmo e alla deriva nel pieno di una bonaccia, o in stazioni ferroviarie in lunghe attese dell’arrivo di un improbabile treno o di coincidenze impossibili tra tempi incompatibili.

Ebbero compagni prestigiosi che collaborarono con entusiasmo, da Andrea Pazienza a Lino Vairetti, da Enzo Moscato ad Antonella Morea, Enzo Castaldo, Francesco Silvestri, Umberto Serra  e tanti altri artisti.

E nonostante le tentazioni della società dello spettacolo che cercò di sedurli, dopo l’apparizione allo Zelig, con volgari e consistenti tentativi di corruzione, proseguirono sdegnati la ricerca: scelsero il mondo delle favole per incontrare finalmente di persona i loro amici d’infanzia e così Cappuccetto rosso, Peter Pan, finanche i sette nani furono definitivamente sterminati.

Compiuta la missione sterminatrice e ancor più insensibili al silenzioso clamore delle folle implaudenti, ripresero il viaggio verso città invisibili delle quali favoleggiavano pregi e magie, ne percorsero i vicoli bui e gli anfratti equivoci, gli angiporti e le strade luccicanti del Natale, o della festa, ma coerentemente attratti ed incuriositi dai vicoli ciechi, dalle agghiaccianti piazze di periferia, dai rifiuti solidi urbani che spesso costituivano le loro scenografie.

Cercarono nelle pieghe del tempo ciò che al tempo sfugge, quell’intervallo innominabile che passa tra un tic ed un toc, o tra due note, tra due lettere, due sospiri, tra il buio e la luce, e allestirono, ingannando il tempo nel quale forse alla fine confidavano, strategie di attento evitamento al mostrarsi.

Ma impellente si mostrò loro, volendo ricostruire un percorso interpretativo, così la constatazione dell’inutile passaggio del tempo: nulla era cambiato o da cambiar, fu in un certo senso il manifesto politico inconsistente cui, temporaneamente, approdarono ed aderirono convinti.

Anche l’attenzione, e soprattutto la sensibilità per i cosiddetti svantaggiati trovò spazio nella loro drammaturgia: in “Concerto per cretino solista”, ultima loro pièce, dedicarono tutta la musica ad un solo esecutore inconsapevole e cretino.

Serrarono le saracinesche delle vetrine in cui esibirsi, non per proporre una seria critica alla drammaturgia del tempo, alle tecnologie che, a loro avviso, inquinavano il mondo del teatro per consegnarlo alla società dello spettacolo e ibridavano gli stessi spettatori a docili esecutori di applausi, prevedibili cliccatori di like.

Ma perché i veri applausi, meditavano tra loro, sono quelli interiori, silenziosi ed ai limiti inferiori delle capacità uditive: il loro forse più grande successo fu proprio il silenzio che li avvolgeva alla fine delle loro rappresentazioni.

Ancora sono grati al pubblico e ai critici per questa opportunità loro graziosamente concessa.

Ma si imbatterono così in due polverose realtà: il tempo e la luce, e non dovevano né vollero, né seppero affrontarle; tentarono un’impossibile evasione nel contrattempo, e in penombra.

Posero infatti l’accento della loro drammaturgia nei tempi di pausa, nell’immaginifico frammento che scandisce il “primma e mò”, meravigliosa invenzione linguistica che precorre i tempi, consentendosi così l’impagabile lusso di concedersi all’anonimato dell’anonimato universale.

Con la loro rimarchevole opera omnia si sono consegnati, o così par loro, all’inganno dell’inganno del tempo, sminuzzandolo in schegge esistenziali sfuggenti alle categorizzazioni e ciò nonostante incoerentemente volte all’astrazione, schegge che talvolta, come noto effetto collaterale, colpiscono il fabbro. 

Sono così nel “dopotutto”, avverbio che, per il suo ambiguo significato sospeso tra “l’oltre la fine” e il “nonostante tutto”, converge sulla suggestiva immagine di un universo, infine, ineffabile.


Nel loro recentissimo esordio nel mondo del cinema si rivolsero perfino alle stelle, in tutti i campi ove brillassero inesauste, da quelle di carta delle suggestioni letterarie a quella che raccolsero su una spiaggia deserta come frutto della risacca, da quelli erbosi del calcio a quelli polverosi del teatro.

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