NAPOLI – Il Laboratorio di Cinema, che impreziosisce l’offerta didattica del Dipartimento di Lingue e letterature comparate dell’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, si conferma una vera e propria agorà che dà ospitalità a chiunque possa arricchire l’esperienza laboratoriale.

E così i Professori Giuseppe Balirano e Francesco Giordano, rispettivamente docente responsabile e docente esperto del Laboratorio di Cinema, hanno accolto Alfonso Reccia, fotoreporter, videomaker, saggista e docente a contratto di Storia moderna e contemporanea, il cui corto “1750 giorni” è stato protagonista, insieme al programmato “Il mare che muove le cose” di Lorenzo Marinelli, del terzo appuntamento della rassegna cinematografica dedicata al multiculturalismo a Napoli, momento clou del Laboratorio di Cinema.

Preceduto dall’intervento di Pietro Pizzimento, Direttore del Festival “Accordi@Disaccordi”, che ha magistralmente tratteggiato l’architettura organizzativa dei festival sottolineandone il loro fondamentale ruolo, oltre che di vetrina per giovani talenti, di luogo d’incontro e di confronto tra gli autori, il corto di Lorenzo Marinelli ha aperto il programma delle proiezioni. Un intenso Nando Paone, capace di toccare ogni corda del registro espressivo, presta il volto a Massimo che, gestore di uno stabilimento balneare e affetto dal Morbo di Parkinson, pensa di essere all’ultima spiaggia della sua esistenza.

Ma, come sottolinea la giornalista Valentina Soria, presente all’incontro, “il rispecchiarsi nelle fragilità e nella paura di un ‘topolino’ che banchetta nella sua cucina, simbolo delle inconsce paure che ingabbiano e paralizzano, evidenziato dal comune tremore, caratteristico sintomo del morbo di Parkinson, nel momento in cui lo coglie con le ‘mani nella marmellata’ – è un po’ un tentativo di esorcizzare la stessa paura e la morte stesa”, ma insieme, come mette in luce il giornalista Luigi Pasquariello “restituisce senso alla sua vita consentendogli così di reagire al dolore e di prendere coscienza di essere ancora in grado di prendersi cura del suo prossimo”. “D’altra parte, prosegue ancora il giornalista, “la trama della vita è certamente intessuta di lavoro, viaggi, letture, incontri, amori ma il segno indelebile del nostro passaggio su questa Terra è dato non da quanti beni materiali accumuliamo bensì da quanto ‘bene’ facciamo agli altri”.

Stessa tensione morale e identica attenzione a una tematica sociale ma stile profondamente diverso per il lavoro di Alfonso Reccia: tanto il corto di Marinelli è dialogato e pervaso da una calda luce quanto ‘1750 giorni’ – in ossequio ai canoni di Dogma95 dei Lars von Trier – è crudo, scarno, ‘sporco’, senza abbellimenti e con dialoghi ridotti all’osso. A ‘parlare’ è la strada, quella battuta ogni giorno da una giovane prostituta africana, C.O., la cui giornata tipo è raccontata da Reccia senza indulgere agli aspetti più morbosi.

Pochi dettagli – l’ingestione di borotalco e l’introduzione nella vagina di un batuffolo di ovatta imbevuto di aceto per scongiurare il rischio di una gravidanza – che compongono il desolante quadro di un’esistenza scandita dalle lunghe attese, dell’autobus che la conduce sul suo ‘posto di lavoro’ e di un cliente. Una routine punteggiata di ‘tempi morti’, quindi di vita non vissuta, rubata e vilipesa, altra forma di violenza, subdola e forse per questo più dilaniante, che si somma a quella fisica e psicologica.

Un corto documentaristico, dunque, che squaderna in faccia la triste realtà di una piaga che affligge la società moderna, la tratta delle donne a fini di sfruttamento sessuale, facendo nel contempo aprire gli occhi sul fatto che la strada verso la piena parità di genere passa anche attraverso il recupero e il reinserimento nel consesso civile delle tante, troppe C.O. che trascinano le loro esistenze incatenate a un presunto debito che sono indotte a onorare anche facendo leva sulla superstizione, lo spauracchio di sciagure in serie in caso di rottura

 

del giuramento “juju” – di qui il titolo “1750 giorni” che rimanda ai giorni che in media occorrono per saldare tale debito che di fatto non si estingue mai in quanto al debito originario si aggiungono altri debiti per il vitto, l’alloggio, l’eventuale interruzione di gravidanza, ecc. – lungo le strade della nostra Italia e del mondo intero.

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